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| Al giorno d’oggi anime e manga sono ampiamente diffusi nel mondo occidentale, ma probabilmente in pochi conoscono l’origine di questi due prodotti, una storia che risale all’inizio del Novecento e che ci viene brevemente illustrata in un articolo del Los Angeles Times.
Durante il periodo della “grande depressione”, uno dei passatempi più diffusi in Giappone era costituito dagli spettacoli kamishibai, termine che letteralmente significa “sceneggiato su carta”. Si trattava di un singolare teatro itinerante in cui la storia veniva narrata tramite delle illustrazioni; una forma d’arte molto popolare all’epoca e che oggi viene indicata come l’antesignana dei moderni anime e manga.
Gli artisti kamishibai viaggiavano in bicicletta di città in città, trasportando sul portapacchi il loro butai, una piccola cassetta di legno con un’apertura frontale che diveniva un vero e proprio palcoscenico in miniatura, qualcosa che ricorda molto i teatrini per bambini che, ancora oggi, è possibile ammirare durante i giorni di festa, ma al posto dei canonici burattini il narratore faceva scorrere delle tavole di cartone decorate con disegni ad acquarello. Dietro ogni cartoncino era scritta la sceneggiatura, e lo scorrimento delle immagini era accompagnato dalla voce del cantastorie che raccontava al pubblico l’episodio illustrato nei disegni. Ogni spettacolo era composto da tre storie brevi della durata di circa dieci minuti: una coinvolgente avventura per i ragazzi, una storia drammatica per le ragazze e, infine, un semplice racconto comico. La maggior parte degli spettacoli terminava lasciando una certa suspence, “costringendo” quindi gli spettatori incuriositi a ripresentarsi il giorno successivo per conoscere il seguito.
Eric P. Nash, giornalista del New York Times e autore di numerosi libri d’architettura, ha dedicato un testo al fenomeno del kamishibai, il volume Manga kamishibai: The Art of Japanese Paper Theater, edito dalla Abrams Comic Arts. Da sempre amante dei comics, leggendo il libro Getting it Wrong in Japan, Nash rimase incuriosito dalla parola kamishibai, un termine mai sentito prima e che neanche figurava nel dizionario. Spinto dalla sua curiosità, due anni fa si recò in Giappone trovando oltre 300 illustrazioni custodite in due biblioteche per bambini di Osaka e Tokyo, ma, soprattutto, comprendendo l’immenso debito che l’animazione attuale aveva nei confronti di quell’arte teatrale ormai dimenticata.
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